Amori, ricoveri e poesia di Alda Merini
Amori, ricoveri e poesia di Alda Merini
Così Alda Merini racconta le sue origini in Reato di vita. Autobiografia e poesie, un volume non facile da trovare, pubblicato nel 1994 dalle Edizioni Melusine: “Sono nata il 21 marzo del ’31 alle cinque di un piovoso venerdì, in una casa che dava sulla via San Vincenzo a Milano.
La casa era povera, ma sontuosi i miei genitori. Mia madre, figlia di insegnanti di Lodi, non aveva voluto studiare, ma era donna di grande, naturale cultura e di gran buon senso...
Mio padre, un intellettuale molto raffinato figlio di un conte di Como e di una modesta contadina di Brunate, aveva tratti nobilissimi. Taciturno e modesto, sapeva l’arte di condurre bene i suoi figli e fu il primo maestro." Queste parole della poetessa potrebbero essere l’incipit di una più approfondita biografia, che andrebbe scritta, perché la sua storia è rappresentativa di un’epoca e di una nazione, in cui le donne erano subalterne rispetto agli uomini, in cui disturbi mentali o semplici intemperanze potevano comportare la segregazione in manicomio, in cui l’attenzione per la maternità e per la famiglia era più scarsa, e i giudici allontanavano i figli – in questo caso, le figlie – dalla madre e dalla casa paterna con ancor più leggerezza di quanto non facciano oggi. Tutto ciò va raccontato anche perché ha avuto un’importanza fondamentale non soltanto nella parabola esistenziale, ma anche in quella letteraria, di una poetessa ormai universalmente riconosciuta tra le voci più importanti del Novecento italiano.
I primi versi a dieci anni
Della sua infanzia si sa poco, scrive lo stesso Borsani, se non che a dieci anni già coltivava una precocissima vena poetica, consacrata quando era poco più che adolescente con le prime pubblicazioni su riviste e antologie. L’uscita della prima raccolta - La presenza di Orfeo (edita da Schwarz nel ’53, quando l’autrice aveva ventidue anni, ma con poesie datate dal ’47 in poi), rappresenta anche una rivalsa rispetto agli studi interrotti. Gli anni tra il ’47 e il ’49 sono anche quelli del primo grande amore: un intellettuale raffinato, nonché sposato, Giorgio Manganelli.
Così li ricorda Maria Corti, scrittrice e filologa che ha sempre seguito con interesse la Merini e alla quale si deve la sua riscoperta nei primi anni ottanta, dopo la segregazione in manicomio: “Fu allora che scopersi, durante le visite settimanali che mi faceva la strana coppia degna di un dramma antico, la complessità della natura di Manganelli, che affiancava a supremi raptus intellettuali una profonda, rara e squisita umanità. Con essa egli cercava di salvare la ragazza, di affidarla in mani sicure, ma la paurosa immensità degli abissi della follia cominciava a dare i suoi segni esteriori”. Finché “un giorno egli scomparve in lambretta. Diretto a Roma”.
I grandi amori
La Merini si innamorò poi di tutt’altro tipo d’uomo, Ettore Carniti, panettiere milanese di otto anni più grande di lei. “Il passaggio da un’intelligenza sofisticata e bizzarra come quella di Manganelli alla semplicità pratica di un operaio del pane non è un cambiamento che possa lasciare indifferenti”, nota Borsani. “Forse – ipotizza – Alda cercava stabilità, forse era stanca di rapporti impostati sulla ‘dissimulazione onesta’, aveva intravisto le perfide invidie dei poeti, le incerte lungaggini della gloria, le sottili cattiverie del mondo intellettuale e si era buttata sul versante opposto, in modo estremo.” A quest’uomo, la Merini rimarrà legata nel bene e nel male fino alla morte di lui, nel 1983. Da Ettore Carniti la poetessa ha avuto quattro figlie, tra il ’55 e il ’72.
“Non so neppure come ho trovato il tempo per farle”, ha scritto la mamma di loro, con ironico riferimento agli internamenti tra un concepimento e l’altro. “Si chiamano Emanuela, Barbara, Flavia e Simonetta. A loro raccomando sempre di non dire che sono figlie della poetessa Alda Merini. Quella pazza. Rispondono che io sono la loro mamma e basta, che non si vergognano di me. Mi commuovono.”
Emanuela, la primogenita, è andata via di casa a 15 anni, le altre hanno trascorso lunghi anni in affido o in istituto. “Solo successivamente veniamo a scoprire le cause del nostro affido ad altre famiglie – scrive Flavia in una toccante ricostruzione della vicenda familiare – una notte nostro padre era rientrato a casa dopo essere andato in giro con gli amici e aver speso tutti i soldi, quella notte nostra madre gli scaraventò contro una sedia facendolo finire all’ospedale. Soffriva molto lei, non di gelosia, soffriva perché veniva picchiata quando lui era ubriaco, ma lei lo amava e si crogiolava nell’illusione che lui cambiasse. Questa grande sofferenza non l’abbandonerà più e sarà la stessa sofferenza che segnerà e condizionerà anche il futuro di noi figlie...”
La privacy violata?
A leggere dettagli intimi e strazianti come questo, si prova quasi una sorta di imbarazzo, come se si violasse la privacy della poetessa scomparsa. E invece sono importanti e vanno detti: non solo perché necessari alla riconciliazione delle figlie con la complessa figura materna, ma anche per il valore che questa esperienza può avere per chi la legge.
“In quel periodo storico – racconta Emanuela Carniti – tutto ciò che era fuori dalle regole solite veniva considerato devianza. Bastava una scenata, e se qualcuno chiamava l’ambulanza, rischiavi che ti portassero via con la camicia di forza. Poteva succedere a chiunque. In quel caso fu mio padre a chiamare: non so fino a che punto si sia reso conto di quello che stava facendo...” E ancora: “Se teniamo conto degli anni in cui si è svolto il tutto, ovviamente il ruolo della donna era di un certo tipo: non aveva molto autonomia e solo una minoranza lavorava. Pur alle prese con il nuovo benessere, le figure femminili sui mass-media erano sempre spose, madri di famiglia e casalinghe. Questo, unito alla paura per tutto ciò che era fuori dagli schemi, ha certamente pesato sul destino di mia madre”.
Ricoveri a ripetizione
Il difficile ménage familiare e i ricoveri a ripetizione, che si sono succeduti dal 1965 fino al ’78 (solo nell’81 la Merini verrà restituita alla letteratura e riuscirà ad avere la sua cartella clinica, da cui “si scopre” schizofrenica), l’hanno tenuta lontano dai suoi amici poeti e anche dai parenti. Facendo diventare un luogo mitico, nella sua memoria, il paesino di Brunate, da cui venivano i nonni.
Alla funicolare Como-Brunate si riferisce anche un aneddoto tra i vari che la mamma amava raccontare – riferisce la figlia Emanuela – siccome le piaceva fare la parte della malata e ripeteva sempre “Il mio cuore è attaccato a un filo”, alla fine qualcuno si stufò e le rispose: “Il tuo cuore è attaccato al cavo della funicolare”. A Brunate vivono ancora alcuni parenti della poetessa, ma soprattutto vive il ricordo del nonno, Giovanni Merini, che nel 1884 sposò la figlia di contadini locali, Maddalena Baserga, e due anni dopo fondò la Società di mutuo soccorso, tuttora attiva in paese e certamente improntata a valori di solidarietà opposti la quelli che hanno segnato al vita di Alda. Lo scorso 3 luglio, con un percorso tra poesie e follia nel cunicoli del borgo medievale, è cominciata la riscoperta di questo legame.
Il luogo ricorrente
A proposito di luoghi, è curioso come tutte le vicende biografiche delle persone più vicine alla Merini passino dal Comasco: Manganelli insegnò al liceo scientifico Giovio, la Corti era di mamma intelvese e riposa nel cimitero di Pellio, Borsani è nato e cresciuto in Brianza, a Lurago Marinone. Coincidenze che hanno doppiamente motivato Geniodonna a portare sul Lario un ricordo vivo di Alda Merini: non solo ricordandola in queste righe, ma anche ridando voce alle sue poesie.