COS'E' LA POESIA...........

22.04.2012 15:57

A poco più di un mese di distanza dal primo novembre 2009, giorno della morte di Alda Merini, la più celebre poetessa italiana del ‘900 e di questi primi anni del 2000, riportiamo la testimonianza resa al nostro giornale prima del ricovero in ospedale per un tumore osseo.
La sua poesia l’ha portata a frequentare maestri come Quasimodo, Manganelli e  Montale. In giovinezza, già a 16 anni, comincia a comporre versi, pubblicando le prime raccolte: “La presenza di Orfeo”, “Nozze romane”  e “Paura di Dio”. Nel 1953 sposa Ettore Carniti e, dopo un anno, nasce Emanuela. Poi i primi problemi, alcuni ricoveri, la nascita di altre tre figlie e la permanenza nell’ospedale psichiatrico. Negli anni ’70 ritorna a scrivere e pubblica uno dei suoi massimi capolavori, “La Terra Santa”.
Negli anni ‘80 la sua produzione artistica è in continuo fervore: si sposa una seconda volta con il poeta Michele Pierri e lo raggiunge a Taranto dove con lui vive diversi anni. Dopo alcune ricadute, si separa definitivamente e torna a Milano dove vive fino alla morte. Negli ultimi 20 anni scrive la maggior parte delle sue opere: "La vita facile", "Le parole di Alda Merini", "Nel cerchio di un pensiero", "Le briglie d'oro", "Superba è la notte”...
La incontrai a Milano dopo alcune conversazioni telefoniche. Lei, la poetessa per eccellenza, che dettava agli editori i suoi versi al telefono, mi ricevette a casa sua, nel mese di luglio. Abitava in via Ripa di Porta Ticinese, nella zona dei Navigli, oggi località “in” di Milano, frequentata da giovani che la sera si riuniscono per l’aperitivo.
La porta di casa, lasciata sempre socchiusa, testimoniava la sua perpetua disponibilità ad accogliere chi, come spesso accadeva, si recava da lei in cerca di aiuto e di “risposte” ai tanti perché della vita. Quando entrai nel suo piccolo appartamento, sommerso di arredi vari, scritte sparse ovunque, tra pareti e specchi, appuntate col rossetto, fui colpito dalle evidenti condizioni di indigenza in cui versava. Segno di grande sofferenza interiore, non celata, ma neanche capace di oscurare la sua infinita nobiltà e profondità d’animo. Rispose alle domande nonstante la fatica della sua infermità fisica. Volle esprimersi fino alla fine.        

Signora Alda, cos’è per lei la poesia?
«è gioia! Non è un lamento, perché per scrivere è necessario essere felici! La gioia deriva dalla fede nella vita e oggi la gente ha perso questo tipo di credo, anche nei confronti degli uomini. Senza gioia non si può scrivere! Ritengo che “l’Inno alla gioia” di Beethoven sia stato scritto in condizioni pietose: era un uomo sordo ma, anche in questo caso, la gioia deve venire dal di dentro. Per quanto riguarda me, la poesia mi ha guarita. Dopo che mio marito mi abbandonò in  manicomio, grazie a Dio, un medico mi incoraggiò a scrivere, perché io non ero più felice e non volevo più comporre poesie. è così che, adagio adagio, ho ricominciato e ho ritrovato nella poesia la felicità».

Perchè allora il poeta viene spesso considerato un malinconico?
«Io non sono stata mai malinconica, ma so che i poeti lo sono per natura, poiché considerano il dolore e la vita nella sua unità. Il poeta è un pessimista che a volte esplode in qualcosa di bello, considera le cose dolorose della vita, ma non è depresso. Credo che la malinconia si possa paragonare alla febbre: “non posso decidere di non averla se mi è venuta”».

In uno dei suoi ultimi libri, “L’altra verità”, racconta gli anni vissuti nell’ospedale psichiatrico. Quale verità ha approfondito?
«Mi sono domandata quali fossero state le ragioni per le quali mio marito mi aveva rinchiusa e ripudiata e che cosa gli avessi fatto per meritare tanto dolore! Io amavo mio marito e in quel comportamento ho visto il tradimento di Bruto: “anche tu, Bruto, figlio mio?”. La persona che amavo di più al mondo mi aveva tradita. Si uccide non solo a pugnalate con un coltello: anche l’indifferenza degli altri può ammazzare moralmente ed è una condizione dolorosissima quella di non essere capiti quando ci si sente abbandonati e finiti dentro. Se a una delle mie figlie ripetessi continuamente che è una cretina, lei si convincerebbe di esserlo. Dipende molto dal giudizio! Dall’esaltazione nasce il contrario, cioè il mito. Infatti,  se tendo a stimolare e ad incoraggiare chi mi è accanto, allora egli non si arrenderà facilmente di fronte alle avversità della vita e andrà avanti, avrà la forza di affrontare le difficoltà e di risolverle. Non si possono usare le espressioni: “tu sei un cretino, brutto e non capisci nulla…”, poiché soprattutto le parole più che le azioni determinano una forte trasformazione dell’individuo e, adagio adagio, quei martellamenti psicologici portano all’indebolimento psicofisico. Dipende molto da chi ci è accanto».

Sta dicendo che i disturbi mentali sono causati dai condizionamenti, anche inconsci?
«Penso che il corpo condizioni la mente e viceversa. I condizionamenti sono inconsci se si rifanno a vecchi traumi. Se il bambino vive senza amore, è già danneggiato dentro ed ha tutto il terreno che gli vacilla sotto i piedi. Il bambino rimuove i vecchi maltrattamenti, ma questi continuano a rimanere nell’inconscio e lo condizionano. L’uomo non va scoraggiato, soprattutto i più deboli, ma è necessario sostenere chi ci è accanto nei momenti di maggiore debolezza. Occorre incoraggiare chi si ama perché si rialzi se è “caduto”e riprenda a vivere e a sognare. Nel mio caso ho vissuto il “manicomio” come un luogo nel quale si veniva protetti dal tempo, dalla società, dagli insulti della gente cattiva… Con l’aiuto di Dio e la lettura dei testi di Freud ho imparato a difendermi, a non aver paura di quel posto dov’ero stata rinchiusa». 
 
Molti suoi versi li ha dedicati a Gesù.
«Per me Egli è il “Dio Solo, il Dio Unico”. Gesù è stato il primo che ha avvicinato le donne, che le ha considerate e le ha ascoltate. È una considerazione: io credo che Lui sia stato il primo femminista».

Crede che esista il demonio?
«Sì, il diavolo esiste e si manifesta nelle comuni forme della cattiveria e della superbia che abitano in ognuno di noi. L’invidia è alla base del demonio».

Come vede il mondo oggi?
«Sono una devota di Papa Giovanni, ma credo stiamo andando verso la completa distruzione. La vita è un dono di Dio, essa ci dà e ci toglie. L’invidia, la cattiveria, ma anche l’impossibilità di combattere queste cose, sottraggono alla gente parte della loro esistenza. La gente oggi è mossa a fare qualcosa solo perché è costretta ad obbedire ad un ordine: spontaneamente è difficile che ciò accada, è difficile che l’uomo obbedisca alla sua coscienza. C’è chi uccide e non si pente e questo perché nessuno ha più una guida. Tutti dovrebbero rassegnarsi di più, essere meno ricchi, e ognuno dovrebbe amare il prossimo come fossimo fratelli. La mia poesia vuole essere un messaggio divino, una preghiera perché si riscopra l’amore verso gli altri».     

Lei ha vissuto in un manicomio, prima dell’avvento della Legge Basaglia*, come ne è uscita?
«Sì, ho vissuto in quelle strutture per più di 10 anni e sono riuscita a venirne fuori prima della riforma! Ringrazio il Signore per avermi svegliata da quella specie di coma da ricovero in cui ero finita. Mi sono chiesta cosa ci facessi io li! Ma devo ringraziare anche i medici che mi sono stati vicino e mi hanno curata».

Con l’entrata in vigore della legge Basaglia i manicomi sono stati chiusi.
«Sì, questo è vero però credo che essa sia stata un grave errore. Mi spiego: il principio era buono, liberare dalla “schiavitù” tanta gente che per un motivo o per l’altro era stata rinchiusa in quelle strutture, ma ciò che è successo dopo ne ha documentato il fallimento. Infatti tanta gente si è trovata sola, senza più nessuno che si prendesse cura di loro. Gli emarginati, oggi, sono disperati perché nessuno li vuole e li assiste come dovrebbero».

Lei ha detto più volte che il manicomio aveva una funzione protettiva.
«Sì, già il fatto che si chiamasse “l’asilo dei poveri” stava a specificare che esso era un luogo dove tutti gli emarginati si incontravano e venivano ospitati! Essi erano per lo più persone immature ma avevano una grande sensibilità e non erano stupidi. Si perdevano nella follia soprattutto perché rimanevano senza amore, il manicomio non educava ai sentimenti e tanti perdevano la ragione. La cosa che più mi ferisce è vedere la gente apporre subito un’etichetta ad una persona solo perché è semplicemente più “stravagante”. Per essere felici è necessario essere anche originali nella vita!» 

La poesia è un mezzo per evadere dalla follia del mondo?
«No, per me è un lavoro, non è una liberazione e non è per tutti. Per scrivere ci vuole un linguaggio, si fa con gli strumenti della cultura. Per me il mondo non è folle ma la vita è anche violenza; la creazione è violenta! L’immagine della tigre che aggredisce la sua preda per mangiarla è molto violenta ma è un ordine naturale e alla fine lo si accetta religiosamente».

Chi più corre il rischio di “impazzire”?
«Non credo ci siano categorie di soggetti da escludere. Sono molti i fattori che contribuiscono a fare ammalare una persona: lo stress, le predisposizioni costituzionali, la famiglia…».

In questa società c’è tanta gente che si suicida.
«Questa gente ha perso la via della ragione. L’uomo ha attentato troppo alla natura, l’ha violentata e la terra si è ribellata. Invece quello che più mi ha colpito dei “matti” è stato il loro comportamento: nonostante fossero stati castigati non si erano ribellati, anzi, il loro atteggiamento nei confronti del modo era di perdono generale».