Le Smemorande sono il ricordo toccabile della mia adolescenza, dei dolori che sembravano irreparabili, dei nomi maschili che a volte si susseguivano ad una velocità sorprendente, altre rimanevano gli stessi per anni interi.
A questi ragazzi, sul mio diario, ho probabilmente dedicato l’intera produzione di Alda Merini, che avevo scoperto da poco e che usavo come voce per comunicare il mio amore, o quello che mi sembrava tale.
Ad Alda ci si approccia per le poesie d’amore, per poi scoprire che dietro a quella parola così facile da usare ci sono le sfumature, a milioni, che quella parola può assumere. E scopri che “amore” si mescola con “dolore”, e poi con “privazione”, e poi con “malattia”. E siccome Dissenno del Poi è una rubrica che vuole parlare di questo, dei malesseri che certi autori hanno avuto, e della loro produzione artistica, non potevo non parlare di lei, che se ne è andata qualche anno fa.

«Anche la follia merita i suoi applausi». Ecco una frase di Alda Merini che amo. Mi piace perché parla della follia chiamandola con il proprio nome. Senza vergogna, senza tabù.
Alda Merini ha saputo raccontare la terribile esperienza del manicomio con vividezza e realismo, ha indagato nei ricordi fangosi, ricordi a forma di fantasmi della sua vita, così sfortunata per tantissimi versi, analizzandone i tratti, cercandone i semi, denunciando la condizione e la vita di luoghi che dovevano essere curativi e che invece umiliavano e schiaffeggiavano la vita, interiore ed esteriore, di tantissime persone.

L’aver vissuto in un manicomio e l’aver interpretato questo vissuto, non è cosa da tutti; l’esserne poi usciti, è stata impresa quanto mai difficile in quanto è pericoloso uscire dai meandri della propria inquietudine per addentrarsi nella socialità.

Una sintesi perfetta. Nelle sue poesie, ma soprattutto ne L’altra verità, Diario di una diversa, Alda Merini cerca di raccontare un non-luogo nel modo più lucido e reale possibile. E la poesia non la abbandona neanche nella prosa, così impregnata di lirismo; sembra scriva una poesia senza andare a capo. Mescola i suoi versi – che si toccano così bene anche quando parlano di mondi a noi lontani – con l’esigenza, la volontà e il desiderio di tramandare, di non scordare, di riflettere; sia sulla malattia mentale in sé, sia sulla solitudine, l’alienazione, la paura che da quel vissuto nascono e crescono.

Un grande bisogno, ma soprattutto un anelito: quello di essere amata, quello di amare, anche nel dolore, anche chiusa in una scatola, anche lontana dalla vita che ricorda essere quella vera. Essere amata e amare per rivendicare la propria esistenza, per rivendicare a voce alta il proprio esserci, anche nel buio, impantanata nel dolore. Il diritto di scegliere, di affermarsi e affermare la propria voce e il proprio corpo; «Io sono certa che nulla più soffocherà la mia vita / […] è quindi venuto il momento di cantare / una esequie al passato».