LA POETESSA DELLA FOLLIA
22.04.2012 13:44
“Fuma mille sigarette al giorno, getta la cenere sempre per terra. Alda Merini ti riceve a casa sua in imbarazzanti divise. Ti offre tutto quello che ha: le sue plaquettes, i tortelli dolci che arrivano chissà da dove, un bicchier di vino dal gusto caldo e aromatico. Le fotografie con lei nuda e ironica campeggiano sulle pareti accanto a foto della vecchia Milano raccolte chissà dove. Non ha pudori. Non ha remore. Se gli sei simpatico ti racconta tutto della sua vita”.
Così descrive la poetessa chi ha avuto la fortuna di parlarle di persona, ospite nella sua casa umile, ma ricca di oggetti, ricordi e simboli.
A partire dalla metà del Novecento Alda Merini è diventata una delle voci più “alte” della poesia. Ha vissuto il dolore del manicomio e dei 46 elettroshock che le sono stati inflitti; se li ricorda bene perché, nonostante tutto, la sua memoria non si è mai spenta. Un vero miracolo.
Alda Merini ha vissuto di poesia e di fede e ha sempre lasciato che la comprensione della vita spettasse a chi è più in alto di noi. “È la vita che ci dà un senso, sempre che noi la lasciamo parlare”. La voce della vita arriva prima di quella dei poeti che invece di interrogarsi sul perché del male e del dolore li accettano, trasformandoli in versi. “Io il male l’ho accettato ed è diventato un vestito incandescente. È diventato poesia. È diventato fuoco d’amore per gli altri”.
Ho cominciato
a piangere per gioco,
e poi ho creduto
che fosse il mio destino
Trattandosi di un dono di cui era semplice portatrice, Alda Merini ammetteva di non poter capire fino in fondo il senso della propria poesia e con la stessa naturalezza si abbandonava alla sfera onirica. I sogni le suggerivano sempre grandi verità e le portavano il divertimento e il gioco scomparsi molto in fretta dalla sua vita reale. “Sento a volte delle mani che rovistano nella carne, che cercano l’anima. I grandi poeti parlano come venissero dall’aldilà e per parlare da uno stato di morte bisogna prima morire. Da un’esperienza di morte come quella del manicomio bisogna uscire per parlarne poi da vivi”.
Anche nell’atto creativo della scrittura era come se Alda dormisse, riuscendo così a entrare nel profondo della sua anima. Pochi hanno capito che la sua poesia era nata a prescindere da tutto e da tutti “È una forza che nasce in me, come una gravidanza che deve essere portata a termine. Molti mi considerano la poetessa della pazzia. Ma chi si è accorto che sono la poetessa della vita? Ho parlato del manicomio perché era il luogo in cui vivevo in quel periodo”.
Il dottor Enzo Gabrici, lo psichiatra che l’aveva seguita durante gli anni del manicomio, ritiene che l’atto creativo della scrittura sia stato per Alda il “balsamo” del suo dolore. La sua inclinazione artistica, a lungo soffocata dai problemi della vita quotidiana, aveva trovato modo di manifestarsi permettendole di ritrovare un proprio equilibrio e un posto di tutto rispetto nella società. “Se io non ho una base, non ho un sogno da custodire ed allevare dentro il mio cuore, non posso più scrivere e di conseguenza non potrei nemmeno vivere”. La tanto meritata celebrità è stata comunque un’arma a doppio taglio.“Il poeta va incontro a invidie, paure, ricatti, delusioni. La vita ti fa pagare il successo; gli ignoranti, i persecutori e persuasori del talento te lo fanno pagare”.
Quando fu ricoverata per la prima volta in manicomio era molto giovane. “Avevo due figlie e qualche esperienza alle spalle, ma il mio animo era rimasto semplice, pulito, sempre in attesa che qualcosa di bello si configurasse al mio orizzonte; del resto ero poeta. Ero una sposa e una madre felice, anche se talvolta davo segni di stanchezza e mi si intorpidiva la mente. Provai a parlare di queste cose con mio marito, ma lui non fece cenno di comprenderle e così il mio esaurimento si aggravò”.
Alda fu internata a propria insaputa. Non sapeva nemmeno dell’esistenza degli ospedali psichiatrici perché non ne aveva mai visto uno. “Quando mi ci trovai nel mezzo credo che impazzii sul momento stesso in quanto mi resi conto di essere entrata in un labirinto dal quale avrei fatto fatica ad uscire. Improvvisamente, come nelle favole, tutti i parenti scomparvero”.
Io ero un uccello
dal bianco ventre gentile,
qualcuno mi ha tagliato la gola
per riderci sopra
non so.
Io ero un albatro grande
e volteggiavo sui mari.
Qualcuno ha fermato il mio viaggio,
senza nessuna carità di suono.
Ma anche distesa per terra
io canto ora per te
le mie canzoni d’amore.
Parlando del suo primo internamento al manicomio Paolo Pini di Milano, Alda ci fa conoscere le condizioni dei malati prima della legge Basaglia, le umiliazioni, le violenze, i maltrattamenti loro inferti da medici e infermieri, forti solo perché sicuri della loro “presunta normalità”. Ci parla della sua famiglia, dei suoi quattro figli, visti al di qua della malattia, in un crescendo di incomprensione e indifferenza.
“Nelle malattie mentali la parte primitiva del nostro essere, la parte strisciante, preistorica, viene a galla e così ci troviamo a essere rettili, mammiferi, pesci, ma non più esseri umani. Così la mia bellezza si era inghirlandata di follia, ed ora ero Ofelia, perennemente innamorata del vuoto e del silenzio, Ofelia bella che amava e rifiutava Amleto”. Dopo il primo periodo di reclusione Alda cominciò ad accettare l’ambiente del manicomio. Di fatto la società per lei era morta; dopo averla rifiutata e insediata tra quei rifiuti sociali non poteva e non doveva più esistere. L’amore e la famiglia erano concetti che considerava superati. Ci racconta invece dell’amore ai tempi dell’abolizione dei padiglioni che separavano donne e uomini, descrivendo il dolce Pierre, così pieno di attenzioni e tenerezze nei suoi confronti.
Del manicomio la poetessa rimpiangerà tutto, specialmente la non socialità. Fuori aveva cercato disperatamente di crearsene una, ma fu una grande delusione. Aveva scritto, mandato lettere, cercato disperatamente di avere dei contatti, scoprendo che probabilmente nessuno l’avrebbe cercata di propria iniziativa.
“Mio marito non veniva mai a trovarmi. Ogni giorno mi appostavo davanti all’ingresso e mi accoccolavo per terra, proprio come una geisha, e aspettavo per ore che lui si facesse vivo. Poi, vinta dalla stanchezza, e con le lacrime agli occhi, tornavo nel mio reparto”.
Ti aspetto e ogni giorno
mi spengo poco per volta
e ho dimenticato il tuo volto.
Mi chiedono se la mia disperazione
sia pari alla tua assenza
no, è qualcosa di più:
è un gesto di morte fissa
che non ti so regalare.
Figlia del proprio vissuto, intenso, doloroso, pieno di solitudine, Alda ha creduto fermamente che la malattia mentale non esistesse. Esistono gli esaurimenti nervosi, esistono le pene familiari, le responsabilità dei figli, la fatica di crescerli ed esiste anche la fatica di amare. Il manicomio che ha vissuto fuori, tornando nella società, non era paragonabile a quell’altro supplizio che però lasciava quanto meno speranza alla parola. “Il vero inferno è fuori, qui a contatto degli altri, che ti giudicano, ti criticano e non ti amano”.