L'ALTRA VERITA'...DIARIO DI UNA DIVERSA

26.04.2012 01:24

Alda Merini, L’altra verità. Diario di una diversa

 
 
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La ristampa  2010 della edizione Rizzoli del 1997 ci regala di nuovo L’altra verità. Diario di una diversa di Alda Merini, già pubblicato da Scheiwiller nel 1986, con prefazione di Giorgio Manganelli, tratta da “Alfabeta” del settembre 1983. “Credo che di rado sia stata più fermamente sperimentata la qualità empirea della parola impegnata nella ricognizione dell’inferno - afferma il critico -; la felicità di questo testo di Alda Merini non è altro che l’incontro con la perfezione del dolore, la salvezza è il battesimo verbale della disperazione”. Diario scritto a Taranto, dopo le nozze della poetessa, vedova di Ettore Carniti, con Michele Pierri, “liberamente tratto dalla cartella clinica del dottore Enzo Gabrici - sono parole della Merini  - che ancora raccoglie le mie poesie scritte in manicomio…ma il vero Diario non è mai stato scritto e io sola - la mia anima – ne è l’unica depositaria”. Il periodo di ricovero va dal 1965 al 1979, salvo brevi ritorni a casa, momenti in cui concepisce le due figlie Barbara e Simona.


Il Diario, in prosa e versi, si rivela la rivisitazione di una realtà talmente crudele e devastante che solo il filtro della parola lirica poteva depurarlo, conferendo alle creature di quell’inferno terreno quasi l’incorporeità delle anime.

Perché non hanno più niente dei comportamenti dei viventi quei corpi lasciati per giornate intere a sedere sui tavolacci, in fila, in silenzio, ognuno nel suo delirio segreto o manifesto.

Non appartengono alla Terra, la società li ha isolati, i parenti li hanno dimenticati, le terapie creano incubi da patibolo – “la stanzetta degli elettroshock era una stanza quanto mai angusta e terribile; e più terribile era ancora l’anticamera, dove ci preparavano per il triste evento…una donna, dopo il quinto elettroshock fatto senza misura né cognizione, impazzì di colpo senza speranza di ricupero” -, la cognizione del proprio corpo scomparsa insieme alla percezione della propria identità.
Il grande assente è l’amore, non un gesto che lo suggerisca da parte degli infermieri, perché “la malattia è peccato, o tale ce la mostravano mettendoci a specchio della nostra miseria e non compatendoci mai…eravamo praticamente le ombre dei gironi danteschi condannati ad una espiazione ignominiosa che però a differenza dei peccatori di Dante, non aveva dietro sé alcuna colpa…noi venivamo saziati di colpa, quotidianamente i nostri istinti erano colpa; le visioni erano colpa; i nostri desideri, i nostri sensi erano colpevolizzati”.


Ma nella solitudine feroce del manicomio, l’aspetto divenuto sordido e irriconoscibile, i pazienti si avvicinano gli uni agli altri e si scambiano gesti di umana pietas:

“Ma poi scoprii che i pazzi avevano un nome, un cuore, un senso dell’amore e imparai, sì, proprio lì dentro, imparai ad amare i miei simili… E qualcuna, la sera, arrivava a rimboccarmi le coperte e mi baciava sui corti capelli”.


Fortuna  che il dottor G.  inizi per  lei un percorso di psicanalisi freudiana, che la inviti a tornare alla scrittura di poesie, che la spinga a ricercare le cause remote dei suoi turbamenti, facendola uscire da quel buco nero nella memoria in cui era caduta e da cui doveva iniziare la sua guarigione, per cui poteva tornare a casa prima della applicazione stessa della legge Basaglia.


Se l’interno del manicomio, in questo caso il Paolo Pini di Milano, ci rimanda a quello de Le libere donne di Magliano, di Mario Tobino, la Merini potrebbe essere la voce di una qualsiasi delle pazienti di Tobino, è la visione dal basso, dalla parte delle vittime, mentre il medico ha potuto solo prendere atto delle situazioni di sofferenza, con quella umana partecipazione che leggiamo nelle sue pagine, ma non conosce la sofferenza e l’umiliazione sulla sua pelle, né ha sperimentato l’annullamento della personalità né la  dignità calpestata.


La prigione del manicomio, la solidarietà tra malati, l’assuefazione al dolore come condizione di vita, quelle mura che contengono e finiscono per essere quasi una protezione, rimandano al romanzo di Petroni Il mondo è una prigione: Petroni trova disumanità fuori dal carcere, il mondo che ritorna a contattare gli sembra una prigione, perché il cuore degli uomini è ottenebrato dalla paura e non offre accoglienza.
 Alda Merini scrive, dopo aver ricordato chi le rimboccava le coperte e le posava un bacio sui capelli: “E poi, fuori, questo bacio non l’ho preso più da nessuno, perché ero guarita. Ma con il marchio manicomiale…Il vero inferno è fuori, qui a contatto degli altri, che ti giudicano, ti criticano e non ti amano”.
La psicanalisi e la poesia sono state la sua salvezza:

 

“Se io non potessi cantare come polvere

o vento,io cadrei a terra sconfitta trafitta

forse come una farfalla e in cerca della polvere d’oromorirei”.