LO SPAZIO VISIONARIO DI ALDA MERINI

25.04.2012 20:39

                                                       Lo "spazio" visionario di Alda Merini


C’è una cognizione di tempo – lirico e immaginario, fisico ed interiore, onirico e religioso – cui attinge il proprio significato la poesia di Alda Merini. Una nozione di conoscenza che appare come provocata da un’involontarietà delle parole che iniziano a modellarsi nel titolo La Terra Santa (1984). La scrittura si muove nel ricordo della malattia e si dilata nell’oscurità della storia. È un viaggio nella sofferenza che non termina mai, tanto da assomigliare ad una voragine. Il luogo di santità che evoca il titolo della raccolta è fonte di ispirazione per la poesia di Alda Merini, ma pone in antitesi il verso nell’urgenza di raccontare l’immediatezza delle sensazioni che affiorano dal passato con metafore e con analogie. Le liriche si susseguono tra il fervere delle emozioni, delle eccitazioni, dal bisogno espressivo e dalla pronuncia individuale concitata e nullameno rivolta all’esterno. Il verso, a tratti denso di rimandi evocativi, trova nelle liriche una mediazione per indagare l’interiorità. La scrittura scopre l’aspetto lirico e la malattia per ricavarne poi una spiegazione: “nella mia anima folle/ o nel mio grembo distrutto?/” – la follia – diviene soggetto del componimento lirico cui segue una dimensione di spazio che viene riempito dai personaggi della sua fantasia “allora simile a Dafne/ mi trasmuto in albero alto/”.

Lo spazio raccontato è geograficamente preciso: il monte Sinai, la Terra Santa e il fiume Giordano sono, come nella scrittura sacra, emblematici: “il manicomio è il monte Sinai, / maledetto, su cui tu ricevi / le tavole di una legge “. I versi traducono la condizione terrena di Anna e la sua sofferenza in manicomio. La voce rimane strozzata nel verso e invoca – per non rimanere sorda - il passato. Orfeo, figura mitica e passionale, ha voluto controllare la natura con il canto, rinunciando all'amore per un sentimento più narcisistico come sarà per la poetessa che sentirà sensazioni e passioni impetuose. L’Io-lirico che accede al racconto poetico attraverso il “sogno/ di realtà che fuggiva/ buttata dietro le nostre spalle / da non so quale chimera” esce dal presente per entrate in uno stato confusionale nel “tempo perduto in vorticosi pensieri,/ assiepati dietro le sbarre / come rondini nude/”. Convivono nelle poesie di Alda Merini due personalità che non si oppongono l’una all’altra, ma solo la scrittura – la poesia – le mette in antagonismo perché subentra l’urgenza della parola. Il patimento umano diventa linguaggio metaforico. La scrittura è irrobustita nei suoi significati più profondi dall’intreccio narrativo. Nel silenzio del manicomio, dove si consumano le vicende di Alda, si incuneano il male e la sofferenza, e per le quali senta l’urgenza di palare, di scrivere e di trovare una salvezza nella fede e nel racconto.

La scoperta del Sé la riconduce di nuovo verso i suoi passi: è come “nella Terra Promessa /dove germina i pomi d’oro / e l’albero della conoscenza / Dio non è mai disceso né ti ha mai maledetto. / Ma tu sì, medici / ora per ora il tuo canto / perché sei sceso nel limbo, dove aspiri l’assenzio / di una sopravvivenza negata / ”. Alda Merini chiama a fare da testimone delle sue sofferenze le scritture sacre. Ad esse si appiglia il continuum linguistico dalla prigione del corpo che produce un senso di estraniazione da tutto il resto. L’eponimia del titolo pone sullo stesso piano il luogo (il manicomio, il padiglione, Affori, le sbarre della stanza e le panche di una stanza o di un giardino) e la malattia che la tiene immobilizzata, mentre la poesia allaccia una relazione con l’esterno. Le parole magmatiche rimarcano il delirio: “dagli inguini può germogliare Dio/ e Sant’Agostino e Abelardo, / allora il miscuglio delle voci / scenderà fino alle nostre carni / a strapparci il gemito oscuro / delle nascite ultraterrestri” /.
Tuttavia nelle liriche traspare il desiderio e l’emotività che la ridestano nel turbamento espressivo. La poesia trae forza dall’impeto e dal desiderio di affetto. “L’uccello di fuoco/ della mia mente malata, / questo passero grigio/ che la imprigiona e la possiede, la stessa sofferenza, talvolta, diventa come un “passero grigio” che è dotato di struggente sensibilità. La debolezza del verso, allora, si trasforma in musica per vincere la solitudine e salvarsi con la fede, ma è travolta dalla passione amorosa. L’impasto tra parola e ricordo assume una funzione adialettica “gli ammalati / non hanno nulla da dire, / odorano anch’essi di legno, / non hanno ossa né vita, / stan lì con le mani inchiodate nel grembo / a guardare fissi la terra”.

La scrittura di Alda Merini è visionaria, inafferrabile e sacra, decisa ad esplorare l’oscura realtà. La mente va verso “vorticosi pensieri, / assiepati dietro le sbarre/ come rondini nude/”. Tra l’altro il racconto si arresta nei continui gorghi: “pelle di donna/ contro la pelle di un uomo/” in cui l’interlocutrice ricerca la fede sorda e “vuota di ogni sapienza, / perché tu eri la mia dottrina, / e il calice della tua vita /sfiorava tutte le rose./” . Del resto la regressione che appare dal racconto consente di leggere la storia individuale della scrittrice che tenta di liberarsi dal lutto psichico e scavare nella interiorità. L’immediatezza del verso la coglie come appesa su di un filo che l’avvolge e la tiene imprigionata nel dolore. Il suo ritorno alla vita terrena senz’altro, non esclude la ricerca della spiritualità anche nella materialità dell’esistenza.

L’incontro con l’Io-lirico muta la sua stanza in uno spazio ‘visionario’ e pervaso da oggetti e ricordi. Il flusso di coscienza che si innesca nella scrittura interroga l’esistenza malata che l’aveva spazzata via così come “ci aveva disvelti/come erbaccia obbrobriosa/”, sradicandola dalle sue radici. L’esistenza di Alda Merini è simile ad “un uccello /dal bianco ventre gentile,/ qualcuno mi ha tagliato la gola/ per riderci sopra,/ non so/. “ Le parole – inserite nella quartina – interrogano la sua esistenza che le appare densa di significati mortiferi. La lingua spazia nei continui isomorfismi (al racconto si accede attraverso la poesia e le immagini dell’esperienza del manicomio). Alda descrive la sua vita quotidianità con similitudini e metafore, facendo acquistare alle parole un significato allucinato: “giunchiglie di ombre/ e il mio urlo sovrasta le acque/”.

La visione metaforica media il racconto della malattia negli oggetti esterni “quel lago/ azzurro era uno stagno/melmoso di triti rifiuti/in cui sarei affogata/”. Sono presenti nelle liriche parole per lo più bisillabe con un ritmo incassato che rendono il registro fonico melodico. La lingua traduce i richiami alla storia e le ripetizioni. I versi scandiscono il racconto: “la luna s’apre nei giardini del manicomio /”. La poesia di Alda Merini sconfina nella pittura che si sovrappone ai versi. È la dimensione del ricordo del passato suggerito dall’arte che va a delineare alcuni contorni nelle liriche: “il mio primo trafugamento di madre/ avvenne in una notte d’estate/ quando un pazzo mi prese/”. Il corpo viene strappato dalla sua condizione naturale e ingabbiato tra i tormenti. È la sofferenza fisica che si amplifica – ancora di più - nella stanza del manicomio dove Alda, tra il dolore e il delirio della sua prigionia, lancia un grido: “non perdonerò mai/ e quel bimbo mi fu tolto dal grembo e affidato a mani più “sante”/.

Dal delirio fa nascere una propria concezione di tempo tra storia e interiorità. La vita di Alda Merini è tra le sbarre del manicomio e tutto ciò non poteva altro che caricarsi di significati profondi come la libertà e sconfinare verso una visione immaginosa simile alla pittura sacra. Lo spazio è il luogo con cui entra nel delirio e ritorna nella stanza dell’ospedale. Ma è anche l’inizio del racconto e del tempo interiore che sembra aver perso e tenta di ritrovare e spiegare con i versi della raccolta poetica.