
	Il tizio che ha scritto la prefazione di questa raccolta di poesie di Alda Merini punta quasi tutta la sua argomentazione sulla nota permanenza della scrittrice in un ospedale psichiatrico. Troppo facile (inevitabilmente, da questo punto di vista, evocando il mito di Orfeo e il “De profundis”). In realtà, io invertirei l’ordine dei fattori: le cose più belle e toccanti che si trovano in questo volumetto einaudiano (che raccoglie poesie che vanno dal 1996 al 1999), sono infatti delle liriche semplicissime eppure spiazzanti che rivelano una sensibilissima personalità ferita che, questa sì, può aver contribuito - in un’èra medievale della Psicologia – a portarcela in manicomio, quella persona.
	 
	Perché lasciate vostra madre sola
	ferma in un canto come una moneta da spendere
	senza darle il buongiorno e metterle
	un lume sulla parete
	che guidi i suoi passi stanchi…
	Perché non andate a vegliare
	la sua solitudine di vecchia
	che pensa che il letto è vuoto
	da molti anni e le coperte scendono
	su un pavimento ormai senza livore…
	Perché non sfiorate i suoi pensieri di carne
	da cui siete nati?
	Perché in manicomio ho messo fonde radici
	al fine di pensarvi.
	Lasciami andare contro la parete
	tu che hai un fucile carico d’inganni
	e che vuoi farmi morta con la vita.
	Non morirò ché la tua donna è eterna
	solo perché ti ha guardato negli occhi
	dentro il gran giorno della primavera.
	Felice te che spargi sementi ovunque
	e sei dedito al tuo sogno di corallo
	come il pescatore che grida
	nelle risacche e lancia reti e addii
	e parte per infinite terre.
	Felice te che credi che il mondo sia immenso
	mentre è solo un salvacondotto impuro
	per la morte del giorno.
	Mi guardi con occhi penetranti
	e dici che nessuno ti ha mai resistito
	e non capisci perché io ti resisto.
	Ma vedi, piuttosto che cederti,
	io mi addormento.
	Potevi essere la canzone del mio umile sguardo
	e sei diventato l’inferno delle mie ore.
	Potevi tradire finalmente il destino
	e sei diventato aquila di furbizia.