UNA DONNA D'AMORE

07.05.2012 15:33

                                                       ALDA MERINI: una donna d’amore

 

Molti di voi lettori conosceranno questo nome e questo cognome, credo in gran parte per quella fama che è solita dare la morte a chi possiede un astro così fulgido com’è la composizione poetica, o un’altra arte. Nel suo caso arrivò il primo novembre del 2009, ma non fu l’unica volta che la Merini vide la morte.

La bevve a piccoli sorsi, sua compagna di viaggio durante i ripetuti internamenti, scrisse: «La vita è una breve parola, occorre spenderla meglio», una consapevolezza che nasce certo dall’esperienza manicomiale, una visione a tratti mistica di un animo profondo e profondamente violentato.

È per me un obbligo, primariamente, ricordare la sua esistenza sotto l’ascendente della benevola faretra d’amore, poiché la sua fu una vita intensa, scandita dai colori accesi delle esperienze amorose con Giorgio Manganelli, maestro di stile per lei e suo primo grande amore, e con Salvatore Quasimodo: «Padre che fosti a me, grande poeta,/ bene ricordo la tua cetra viva/ e le tue dita bianche affusolate/ che varcavano il solco del mio seno». La Merini s’avvicinò alla poesia giovanissima, ai suoi quindici anni risale il primo componimento, mentre al compimento dei venti vide pubblicate due sue liriche sull’antologia: Poetesse del Novecento, su suggerimento di Eugenio Montale. Pure Pasolini rimase stupito dal precoce genio poetico che albergava in quella ragazzetta milanese. L’adolescenza fuggì veloce e di color di pesca fino al matrimonio con Ettore Carniti, il quale dopo un furibondo litigio, le procurò nel 1965 l’internamento nel manicomio Paolo Pini. Questo periodo, per la Merini, segnò un momento di assoluto silenzio, quindici anni in cui la psicanalisi e l’elettroshock la tramuteranno nell’altro, nel folle. All’interno degli ospedali psichiatrici assistette alle più aberranti violenze, alla demolizione dell’individuo, e ininterrottamente durante l’arco della sua vita denunciò il silenzio, la mancanza di umanità di quei luoghi ai quali, grazie alla legge Basaglia, fu detta fine;  ma «i poeti, nel loro silenzio,/ fanno ben più rumore/ di una dorata cupola di stelle», e l’oblìo cui l’aveva portata la devastante esperienza manicomiale venne finalmente rotto. Scrisse: «poeta fui, e poeta rimasi tra le sbarre», e fu così l’inizio di quello che è considerato il suo capolavoro, La Terra Santa, opera che sancisce l’inizio di una poetica nuova, caratterizzata da liriche dal messaggio doloroso di una personalità inquieta, dove la realtà, a tratti, viene sublimata e deformata dal delirio della follia. E fu solo pensando alla morte, che lei trovò «il senso del mio destino insensato», come in Porto sepolto Ungaretti scrive: «Vi arriva il poeta/ e poi torna alla luce con i suoi canti». La poesia fu per lei àncora di salvezza, rifugio dal dolore, e foglio bianco in cui riporre i suoi incessanti pensieri: «la poesia è una grande distrazione dal dolore, dalle cosa pesanti della vita». Nonostante la definitiva uscita dal manicomio, e il nuovo matrimonio con il poeta tarantino Michele Pierri, questi anni di apparente tranquillità vennero deturpati dal riaffacciarsi del demone follia e la Merini sperimentò nuovamente le torture di un ospedale psichiatrico. Gli alternanti incontri con la follia, non rappresentarono per lei motivo di nuovo silenzio e dopo il ’79 la sua produzione fu ampissima, costellata da prestigiosi premi. La sua poesia, caratterizzata da un forte elemento carnale e mistico, è legata in modo inscindibile con l’esperienza di vita, ma nonostante questo la poetessa conserva una speranza di rinascita, uno sguardo che tinge d’esperanto, tanto che in una delle sue ultime interviste disse: «Se guardo tutto ciò che mi circonda come posso pensare che Dio voglia darmi anche il Paradiso?».

 


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