UNA PICCOLA APE FURIOSA

22.04.2012 16:34

«Sono una piccola ape furibonda. Mi piace cambiare di colore. Mi piace di cambiare di misura». Sono queste le parole che Alda Merini, la grande poetessa scomparsa oggi a Milano, aveva scelto per la hompage del suo sito ufficiale, accanto ad una immagine molto intensa, in bianco e nero, con l'immancabile sigaretta in mano e la altrettanto inseparabile collana di perle al collo.

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Del resto, in questo mettere insieme regole borghesi e trasgressione era l'anima della sua opera dolorosa, segnata dall'esperienza della follia e del disagio fisico ed economico, in un ventennale entrare e uscire da ospedali psichiatrici tra gli anni Sessanta e Settanta. «Sono molto irrequieta quando mi legano allo spazio», scriveva in una componimento intitolato Poesia e la sua instabilità si traduceva in versi ad altissima intensità emotiva, spesso erotica, sin a partire dai primi componimenti, semplici, lineari, di pochi versi.

ALDA MERINI

Alda Merini ha iniziato a comporre le prime liriche giovanissima, a 16 anni. Il suo primo incontro con il mondo letterario avvenne quando Silvana Rovelli, cugina di Ada Negri, sottopose alcune delle sue poesie ad Angelo Romanò che, a sua volta, le fece leggere a Giacinto Spagnoletti, considerato lo scopritore della poetessa. La prima raccolta di poesie di Alda Merini: "La presenza di Orfeo", pubblicata nel 1953, ebbe subito un grande successo di critica. Il suo capolavoro è però considerato "La Terra Santa" che le è valso, nel 1993, il Premio Librex-Guggenheim "Eugenio Montale" per la Poesia.

Altre sue raccolte di versi sono "Testamento", "Vuoto d'amore", "Ballate non pagate", "Fiore di poesia 1951-1997", "Superba è la notte", "L'anima innamorata", "Corpo d'amore", "Un incontro con Gesu", "Magnificat. Un incontro con Maria", "La carne degli Angeli", "Più bella della poesia è stata la mia vita", "Clinica dell'abbandono" e "Folle, folle, folle d'amore per te. Poesie per giovani innamorati".

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Nella sua carriera artistica, Alda Merini si è cimentata anche con la prosa in "L'altra verita". "Diario di una diversa", "Delirio amoroso", "Il tormento delle figure", "Le parole di Alda Merini", "La pazza della porta accanto" (con il quale vinse il Premio Latina 1995 e fu finalista al Premio Rapallo 1996), "La vita facile", "Lettere a un racconto. Prose lunghe e brevi" e "Il ladro Giuseppe. Racconti degli anni Sessanta" e con gli aforismi "Aforismi e magie".

Nel 1996 era stata proposta per il Premio Nobel per la Letteratura dall'Academie Francaise e ha vinto il Premio Viareggio. Nel 1997 le è stato assegnato il Premio Procida-Elsa Morante e nel 1999 il Premio della Presidenza del Consiglio dei Ministri-Settore Poesia.

«Stia attento, sa! Io sono un presunto premio Nobel», sussurra con tono ironico e fintamente minaccioso Alda Merini piegata sulla cornetta del telefono. Ammicca nella mia direzione. «Lei che ne dice?». Si tocca la pancia, una smorfia le si ricama sulla faccia intelligente e maliziosa, spiega che sta aspettando il medico. Era lui all´apparecchio. «Faceva storie». Sono le due del pomeriggio. Mi racconta che stava per fare il bagno, si era dimenticata dell´appuntamento.

Lascia che l´acqua scorra nella vasca, dopo un po´ il suo gorgoglìo diventa una nuova forma di silenzio. Ride, spezza il filtro di una Diana, se la infila tra le labbra e l´accende. Sul parquet brucia ancora il mozzicone di quella precedente, una sottile voluta di fumo si alza tra libri, fogli, disegni, stoffe, abiti non stirati, panni che da giorni attendono di finire in una misericordiosa lavatrice, scatole di gomma da masticare e paletò macchiati appesi a un unico tronfio trespolo che sembra un babbo natale impalato da qualche crudele ragazzino.

MontaleMontale

Alda Merini è una delle più grandi poetesse italiane del Novecento. Di sigarette ne fuma settanta, a volte ottanta il giorno. «In manicomio ce le passavamo gli uni con gli altri. Stavamo in fila, a testa bassa, dentro i nostri camicioni, nel darci la cicca indugiavamo un po´ per accarezzarci le mani. Erano le uniche ricchezze che avevamo, la sola cosa da fare, il solo gesto umano che ci univa nell´illusione di un breve spazio di normalità». In giro non si vedono posacenere, il pavimento assomiglia a un campo di stoppie annerite dai falò autunnali. «Le sigarette mi hanno allungato la vita». Solleva appena il vestito, mostra le gambe bianche: «Guardi che bella pelle che ho. Lei che ne dice?». La sua simpatia è dolce, nostalgica, attraversata da tenerezze e pudori di bambina.

I poeti sono spesso poveri. Quasi mai tristi. Si portano dentro l´allegria dei naufraghi. Oppure lo sberleffo, che è la vanità degli artisti. È così per la Merini. La immaginavo, chissà perché, sempre sola nel cerchio tracciato dalla sua musa e invece scopro che ha dietro moltitudini di anime, amori, vite, dolori e piccole felicità passeggere, un´esistenza spezzata in tanti fiumi alcuni dei quali si sono seccati nella terra mentre altri, alla fine e fortunosamente, sono riusciti a riemergere e ricongiungersi.

I poeti non perdono mai nulla, o abbandonano soltanto ciò di cui vogliono liberarsi. Alda Merini parla per esempio di Eugenio Montale, uno dei suoi uomini preferiti. Dice proprio così, «uomini», anche se con Montale non c´è stato nulla di più di un´amicizia. Ricorda quei versi indimenticabili che riportano tanti di noi al sapore dell´infanzia: Qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza, ed è l´odore dei limoni.

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Anche lei, a settantacinque anni, quindici dei quali, da quando ne aveva ventisette a quando ne ha compiuti quarantadue, trascorsi da matta tra i matti, fa il conto della sua ricchezza. «Ho avuto quattro figlie. Allevate poi da altre famiglie. Non so neppure come ho trovato il tempo per farle. Si chiamano Emanuela, Barbara, Flavia e Simonetta. A loro raccomando sempre di non dire che sono figlie della poetessa Alda Merini. Quella pazza. Rispondono che io sono la loro mamma e basta, che non si vergognano di me. Mi commuovono».

Ha avuto un marito, Ettore Carniti, molto amato, molto geloso e, dice lei, anche parecchio infedele. Una notte che era rientrato a casa con addosso il profumo di un´altra donna, come il Tomàs dell´Insostenibile leggerezza dell´essere di Kundera, lei gli spaccò in testa una sedia dorata. «Quella lì», me la indica. La spalliera è tutta incerottata. Mi invita a sollevarla. È pesantissima. Lui sopravvisse eroicamente allo schianto, chiamò l´ambulanza e la portarono in ricovero coatto al Paolo Pini, l´ex manicomio di Milano ora diventato un parco e un teatro. «Ma io laggiù non ci ho mai più messo piede, ho paura. Terrore purissimo».

giorgio manganelligiorgio manganelli

Lei è così. Salta da un argomento all´altro. Li accatasta alla rinfusa, come gli oggetti di questa minuscola casa al 47 su Ripa di Porta Ticinese. Di fronte ci sono una chiesa di mattoni bruniti e l´acqua scura come la pece del naviglio. Camera da letto, bagno, cucinino, studio. Ci si sposta solamente mettendosi di fianco, schiacciandosi come acciughe contro gli indecifrabili relitti che coprono le pareti. Nel gioco dei pieni e dei vuoti, questi ultimi hanno avuto clamorosamente la peggio. Lei ce l´ha con il padrone di casa che l´ha obbligata a liberare la soffitta e con gli operai che spaccano, battono, impolverano. Ma è un rancore fragile, forse nient´altro che un aneddoto al quale si è ormai affezionata come un reumatismo che si risveglia nelle ossa quando cambia il tempo.

 

«Qui, adesso, è impilata tutta la mia vita. Il mio lavoro. A volte viene a trovarmi mio marito». Ettore Carniti è scomparso nell´81. «Non credo ai fantasmi, anche se sarei una buona giallista. Fu Manganelli a insegnarmi la tecnica del romanzo giallo. Ettore entra dalla stessa porta dalla quale è passato lei. Arriva all´improvviso, come faceva sempre, nel timore o nella voglia di scoprirmi con qualcun altro. Io lo sento. Portiamo i morti con noi fino a quando moriamo a nostra volta».

Non potrei vivere senza la fede, scrisse in passato. Quand´era ragazzina, affezionata alla storia di Santa Teresina del Bambin Gesù, tentò di entrare in convento. Fu una fugace esperienza. «Sono una contemplativa, non mi piacciono i rumori, amo la solitudine». La famiglia andò a riprendersela. Finì a fare pratica da stenografa negli studi di alcuni avvocati fallimentari. Il primo impiego lo perse subito perché componeva poesie durante l´orario di lavoro. «Mi buttarono fuori. Erano taccagni, mamma mia, lei non ne ha idea dell´avarizia degli avvocati. Ma adoravo il loro modo di scrivere gli atti. Mi accorsi che gli avvocati scrivono bene».

Nel centro di Milano percorreva ogni mattina la stessa strada. Era il 1948. Le capitava di incontrare sovente un signore minuto, curvo, silenzioso, di un´eleganza dimessa. A lui dedicò una delle sue prime poesie, Il gobbo: Mi viene a volte un gobbo sfaccendato, un simbolo presago d´allegrezza che ha il dono di una strana profezia. Quell´uomo era Enrico Cuccia, il leggendario banchiere. «Una mattina lo fermai e gli dissi: io ho fame. "Buon segno", mi rispose. E tirò dritto».

Giovanni Paolo II colpito in piazza san pietroGiovanni Paolo II colpito in piazza san pietro

Dio, invece, da lei si fermò, nonostante la rinuncia alla clausura. E non se n´è più andato dalla sua anima. Anche da altre parti del suo corpo. Dagli inguini - scrive la Merini nella raccolta La Terra Santa - può germogliare Dio. «La mia religiosità è molto pagana. Pagana e gaudente. Mi sono sempre comportata da grande peccatrice e non mi sono mai pentita. Non vado in chiesa a mormorare, d´altra parte le chiese sono sempre vuote. Non prego. Ma credo che Dio sia qui con me. Ne avverto la presenza, annuso il suo odore, sento dentro di me la pace divina. Due cose sopra tutte mi convincono dell´esistenza di Dio: che non sono padrona delle mie volontà e che l´Oceano Pacifico non possono averlo creato gli scienziati. Mi basta questo. Nego l´aldilà e la resurrezione. Se guardo tutto ciò di meraviglioso che Dio ha creato su questo terra, come posso credere che mi regali anche il paradiso? Sarà per questo motivo che non penso mai alla morte. A meno che non sia già morta. Lei che ne dice?».

Dai muri gli oggetti appesi con mano malferma danno l´impressione di poter precipitare da un momento all´altro. Ci sono molte immagini di Giovanni Paolo II. «Lo amo. Era bello, coraggioso, ostinato. Non sembrava neanche un Papa. Ha saputo tenere annodati i cordoni della pace, ha parlato con tutti i popoli del mondo. La sua agonia è stata terribile, penosa. Dopo i suoi funerali non ho più acceso la tv». C´è un poster del film Vacanze romane. Gregory Peck e Audrey Hepburn. «I nostri grandi amori. Oggi non ne esistono più, si è persa la favola. Telefonini, computer, sms. Mi trovi uno che scriva ancora lettere alla fidanzata, se ne è capace. Gli italiani sono sempre più cretini, malati di padreternismo, egoisti e primitivi. E sempre più tristi. Mi era rimasto Berlusconi, il solo che mi facesse ridere in un paese che non ride più. Con la sua caduta è morto l´ultimo pagliaccio d´Italia, aveva una stupidità che incanta».

dalla luciodalla lucio

In camera, proprio sopra il letto c´è una riproduzione dell´Origine del mondo di Gustave Courbet. «Guardi l´offerta piena che c´è tra le gambe di quella donna. Maria Corti diceva che le donne non hanno sesso. Io mi considero una donna fallica. Non ho l´ossessione del sesso, ma so per esperienza che il sesso annienta le nevrosi. Sono molti anni che non faccio più l´amore. A volte provo il desiderio di scopare un uomo, ma mi passa in fretta. In realtà non ne ho più voglia. Noi anziani trascorriamo le giornate con un obiettivo fisso nella testa. Prima di sera - ripetiamo a noi stessi - , riuscirò a fare questo e quello, e quell´altro ancora. Ci illudiamo di essere forti, autosufficienti. Viene notte e non abbiamo combinato nulla. A fatica ci manteniamo in vita. Io sono una vecchia che sta bene, vado a letto presto e so che ogni giorno nuovo è un giorno regalato».

milvamilva

Alda Merini lavora ancora. Molto. Con Milva, Lucio Dalla, Roberto Vecchioni, Giovanni Nuti. Ha appena terminato i Vangeli apocrifi. «Scrivo per non annoiarmi. Non ho mai avuto il piacere della lettura, non so come la gente possa leggere le mie poesie. Credo di non avere mai letto un libro fino alla fine». Confessa di fermarsi alla prima frase dalla quale viene folgorata. Di lì in poi la sua mente spicca il volo e si perde. Acrobazie, evoluzioni, salti mortali sul filo delle parole. «Le parole sono per me modelli di virtù. Le bevo come i bambini attaccati al capezzolo della madre o al loro dito. Sono stata matta d´amore per Rainer Maria Rilke. Mi piacevano Hölderlin, Valéry, Melville, Gide, Pirandello, Dante, Manzoni. L´errore è farci leggere I promessi sposi a scuola. Ho avuto la fortuna di conoscere altri grandi letterati: Quasimodo, Manganelli, Montale, Raboni, la Spaziani. Alcuni li ho amati, li ho avuti. Non Giovanni Raboni.

Giovanni era bellissimo. Ricordo che una sera lo incontrai al bar in un albergo di non so più quale città. Era appoggiato al bancone e mi dava le spalle, alto, bianco, elegantissimo, un attore del cinema, un dio. Pensai: chissà che cosa beve un uomo così. Mi avvicinai e lo sentii ordinare al cameriere una camomilla. Avrei voluto abbracciarlo, ma non ne ebbi il coraggio».

Lascia cadere sul pavimento la sigaretta ancora accesa, ne prende un´altra dal pacchetto. Dice: «Ho avuto una bella vita. Sa qual è il più bel complimento che ho ricevuto? Me lo fece la mia vicina, una signora che non c´è più e che non dimenticherò mai. Mi raccontò che in Sardegna abitava nella stessa casa di Grazia Deledda e che io gliela ricordavo perché come lei non mi davo arie e stavo bene anche con uno straccio addosso. Io non ho più niente da dire. E lei, lei che mi dice?».

A LUCIO DALLA
O poesia che oramai
gemi per terra straziata da mille orrori
quante volte ti hanno ucciso
mentre innocentemente
cercavi un fiore nel Paradiso

Le donne vogliono il tuo indirizzo
e non sanno che tu non hai una casa
ma vivi errabondo nel giardino dell'Eden
e non hai alcun peccato.

Sei sola nella dimora degli Angeli
attaccata alla catena di Dio
e i tuoi ululati di lupo ferito

 

A TUTTE LE DONNE
Fragile, opulenta donna, matrice del paradiso
sei un granello di colpa
anche agli occhi di Dio
malgrado le tue sante guerre
per l'emancipazione.
Spaccarono la tua bellezza
e rimane uno scheletro d'amore
che però grida ancora vendetta
e soltanto tu riesci
ancora a piangere,
poi ti volgi e vedi ancora i tuoi figli,
poi ti volti e non sai ancora dire
e taci meravigliata
e allora diventi grande come la terra

 

VELEGGIO COME UN'OMBRA
Veleggio come un'ombra
nel sonno del giorno
e senza sapere
mi riconosco come tanti
schierata su un altare
per essere mangiata da chissà chi.
Io penso che l'inferno
sia illuminato di queste stesse
strane lampadine.
Vogliono cibarsi della mia pena
perché la loro forse
non s'addormenta mai.