LA PAZZA DELLA PORTA ACCANTO
La pazza della porta accanto.
Ricordando Alda Merini
Il primo novembre moriva Alda Merini (1931-2009), poetessa e scrittrice di riconosciuto
talento, vincitrice di prestigiosi premi letterari (Premio Librex Montale nel 1993, Premio Viareggio
per la Poesia nel 1996, Premio Procida - Elsa Morante nel 1997, Premio Dessì per la Poesia 2002),
più volte candidata al premio Nobel per la letteratura. Tornano in mente alcune sue interviste,
sempre con la sigaretta in mano, il suo legame con Milano e con i Navigli, il suo stile visionario,
caratterizzato da ricorrenti e suggestivi deliri metaforici, decisamente fuori dagli schemi come, del
resto, la sua vita e la sua persona. Ammetteva lei stessa: «non sono una donna addomesticabile»
(Merini, 1999 : 4).
Esordì presto come autrice (aveva solo quindici anni), e altrettanto presto (a sedici anni,
nel 1947) conobbe i primi momenti bui della mente e l’esperienza dell’internamento. Non ne
faceva mistero, non si tirava indietro, talvolta ironizzava. Il manicomio e la follia, con il loro
corredo di evocazioni, epifanie e fantasmi, erano temi ricorrenti – in alcuni casi dominanti – nei
suoi elaborati e nelle sue interviste. Né avrebbe potuto essere diversamente, se si considera che
le parentesi manicomiali occuparono circa quindici anni della sua vita.
E’ difficile stabilire quale delle sue numerose opere la rappresenti nel modo più compiuto,
come pure tracciare una linea di demarcazione netta tra il dato biografico e quello immaginifico.
Lasciamo volentieri ai critici questa incombenza. Quel che ci piace sottolineare è invece come,
nonostante le devastanti incursioni negli abissi della follia, questa donna singolare sia riuscita ad
affermarsi come una delle voci poetiche più significative del ‘900. In questo spazio vogliamo
ricordarla prendendo spunto da alcune sue parole.
«Il manicomio è una grande cassa
di risonanza
e il delirio diventa eco
l’anonimità misura,
il manicomio è il monte Sinai,
maledetto, su cui tu ricevi
le tavole di una legge
agli uomini sconosciuta.»
Non vi sono dubbi che i diversi internamenti furono per Alda Merini un’esperienza
devastante. Un inferno inizialmente subito (il primo ricovero non fu spontaneo), poi voluto.
Capiva di non star bene e si “consegnava” volontariamente a quella “prigione”.
«Mi rendo conto che è difficile spiegare il mio bisogno di tornare ciclicamente nell’inferno del manicomio.
Probabilmente si torna sul luogo del delitto per capire le ragioni della propria morte, per trovare
quella cartella clinica su cui è scritto il nostro destino.»
I motivi di mortificazione legati al manicomio erano tanti. La spersonalizzazione
insita nel sistema manicomiale. Le violenze e il clima di soprafazione che si respirava in quegli
ambienti. La dolorosissima separazione dalle sue figlie. La sterilizzazione. Gli elettroshock che
avevano l’effetto di spazzare via i sentimenti e rendere invalide le persone. Eppure, nonostante
tutto questo, poteva capitare che parlasse e scrivesse di quei luoghi con nostalgia. E a chi la
interrogava in merito rispondeva così:
«Si fa sempre il paragone con quello che c’è fuori. Lì dentro accadevano anche cose incredibili. Ricordo
un ragazzino che mi stava sempre appresso perché gli infermieri lo andavano a masturbare, gli facevano
scherzi atroci. Ma noi pazienti eravamo tutti amici. Nessuno si stupiva del comportamento altrui, né
aveva parole di condanna morale. Quando aspettavo mia figlia Simona erano tutti felici. I malati si
preoccupavano per me, la gente sana no.»
Definiva la follia come una delle cose più sacre che esistano sulla terra, un dolore
purificatore, una sofferenza intesa come quintessenza della logica. Osservava come il delirio fosse
capace di dar vita a figure, visioni e realtà sommerse. Un capitale enorme ed estremamente
prolifico che solo un poeta – e tale lei amava definirsi – era capace di amministrare.
L’accostamento al sacro era reso anche attraverso evocazioni bibliche. Emblematica, a tal
proposito, è la poesia La terra santa (pubblicata nella raccolta Vuoto d’amore). Eccone una parte.
«Ho conosciuto Gerico,
ho avuto anch’io la mia Palestina,
le mura del manicomio
erano le mura di Gerico
e una pozza di acqua infettata
ci ha battezzati tutti.
Lì dentro eravamo ebrei
e i Farisei erano in alto
e c’era anche il Messia
confuso dentro la folla:
un pazzo che urlava al Cielo
tutto il suo amore in Dio.»
Ovviamente non tutti i folli sono poeti: non è così semplice trasformare il dolore in poesia.
Mentre per il poeta il dolore può diventare materia prima, o, almeno, così era per Alda Merini.
«Il dolore è una terraferma. L’uomo sicuramente può contare sul dolore perché è l’unica cosa sua, da
sempre. La gioia è errabonda.
[…] E’ il dolore che ci fa crescere ed è il dolore che ci fa morire. Se togliamo il dolore, togliamo il tavolo
sul quale mangiamo ogni giorno. Senza dolore finiremmo costretti a mangiare per terra.»
Nel pensiero di Alda Merini il dolore sembra permeare ogni cosa. Anche l’amore non è
mai solo gioia, «nell’attesa c’è già la ‘potenza’ dell’atto, durante l’atto c’è già l’ombra della fine»
e «non si può non star male d’amore» (Merini, 2002a : 7), spiega Roberto Vecchioni illustrando
l’idea di amore della poetessa nella parte introduttiva del testo Folle, folle, folle di amore per te.
Poesie per giovani innamorati. A volte è la stessa poesia a diventare insostenibile.
«O poesia, non venirmi addosso
sei come una montagna pesante,
mi schiacci come un moscerino;
poesia, non schiacciarmi,
l’insetto è alacre e insonne,
scalpita dentro la rete,
poesia, ho tanta paura,
non saltarmi addosso, ti prego.»
Indugiava spesso sui compiti del poeta e sul ruolo della poesia, quasi che questo definire e
ridefinire fosse funzionale ad un suo bisogno di affermazione identitaria e di riconoscimento
sociale.
«[…] il poeta deve parlare, deve prendere questa materia incandescente che è la vita di tutti i
giorni, e farne oro colato. […] Ora la poesia dovrebbe essere un fenomeno un po’ più extraconiugale,
diciamo un fenomeno collettivo. Per carità, non tutti hanno voglia, quando tornano dal lavoro, di leggersi
i poeti, che Dio ce ne guardi. Però la poesia educa il cuore, la poesia fa la vita, riempie magari certe
brutte lacune, alle volte anche la fame, la sete, il sonno. Magari anche la ferita di un grande amore, un
amore che è finito, oppure un amore che potrebbe nascere.»
Eppure neanche i riconoscimenti letterari e la notorietà riuscirono a metterla al riparo
dall’indigenza economica – «[…] ma vado alla banca dei pegni / e trovo il mio conto scoperto»
(Merini, 1995 : 61) –, né dallo stigma sociale riservato a chi ha attraversato la malattia
mentale. Tanto che, anche dopo la candidatura al Nobel, gli abitanti del Naviglio – luogo dove
visse larga parte della sua vita – continuarono a trattarla come la pazza della porta accanto.
«Ma chi è poi la pazza della porta accanto? Per me è la mia vicina. Per lei la matta sono io, come per tutti
gli abitanti del Naviglio, della mia casa.»
Considerazioni ribadite anche in occasione di interviste televisive rilasciate pochi mesi
prima della sua morte. Viviamo in una società che non perdona l’errore, l’imperfezione, e, in
ultima analisi, la diversità. Di questo aveva un’empirica consapevolezza.
«Il manicomio che ho vissuto fuori e che sto vivendo non è paragonabile a quell’altro supplizio che però
lasciava la speranza della parola. Il vero inferno è fuori, qui a contatto con gli altri, che ti
giudicano, ti criticano e non ti amano.»
La riforma manicomiale non è stata accompagnata da un adeguato progresso culturale.
Ancora oggi la disabilità (mentale e non) è spesso associata a connotazioni negative e
stereotipate. Un “virus” dal quale neanche gli operatori di settore sono immuni.
«Dopo la chiusura dei manicomi, a Milano sono stati aperti dei centri di assistenza che vengono chiamati
“manicomietti”. Ci vado anche io perché ho bisogno di parlare con qualcuno, non perché vi sia obbligata.
Una frase della nostra assistente: «Noi i pazienti non li cerchiamo, devono venire loro a chiederci aiuto»,
è, questa frase, ingiusta e fa leva sul nostro senso di debolezza. Sicché, noi dobbiamo passare la vita
a chiedere aiuto, ossia farmaci, ossia dipendenza; della qual cosa ci vorremmo invece
liberare.»
Atteggiamenti come questi non aiutano la persona guarita a scrollarsi di dosso il “marchio
manicomiale”, anche quando quella “parentesi” potrebbe considerarsi un capitolo chiuso.
«Il manicomio non finisce più. E’ una lunga pesante catena che ti porti fuori, che tieni legata ai
piedi. Non riuscirai a disfartene mai. E così continuo a girare per Milano, con quella sorta di peso ai
piedi e dentro l’anima. Altro che Terra Santa! Quella era certamente una terra maledetta da Dio.»
(Merini, 1997 : 96-97)
Anche se può risultare problematico ammetterlo, la follia (al pari della ragione) fa parte
della condizione umana. Non è detto che si riesca sempre a rispondere in modo razionale alle
contraddizioni, alla disuguaglianza, ai paradossi, alle forze centrifughe, ai conflitti, alle antinomie
che il nostro sistema sociale continua a generare. Ci sono dolori che non riusciamo a guardare e –
tanto meno – a spiegare.
«Di fatto, non esiste pazzia senza giustificazione e ogni gesto che dalla gente comune e sobria viene
considerato pazzo coinvolge il mistero di una inaudita sofferenza che non è stata colta dagli
uomini.»
Alda Merini è riuscita a raccontarci qualcosa di questa realtà così prossima da far paura. Lei
non c’è più, ma le sue parole e i suoi versi sono ancora qui, a disposizione di chi, nonostante la
paura, ha ancora l’audacia di interrogarsi sulla condizione umana e sulla sua fragilità. Sulla nostra
fragilità.